QUELLO CHE VEDETE NON È NÉ CIBO, NÉ ARTE
Il 29 ottobre, la Galleria Gaburro di Milano inaugura una mostra collettiva che, a partire dall’aforisma di Daniel Spoerri, rilegge la poetica del Maestro attraverso lo sguardo di una nuova generazione di artisti
Nella società contemporanea il cibo ha assunto e assume nuove caratteristiche. Riprodotto costantemente da immagini che popolano i media e i social network, è oggi paradigma della spettacolarizzazione della vita quotidiana.
Seguendo l’aforisma di Daniel Spoerri che dà il titolo alla mostra, l’esposizione vuole costruire un dialogo intergenerazionale e intermediale a partire dall’artista romeno, che conserva e preserva scene di vita ordinaria facendo riferimento alle ritualità spettacolari del consumo dei pasti o di qualsiasi azione. Inserendosi in un’ampia riflessione sulla quotidianità, sulla ritualità, sull’alchimia e sul cibo (“sul cibo, con e senza il cibo, attraverso il cibo e il corpo”), quattro artisti declinano, consapevolmente e in modo sempre differente, un aspetto della poetica di Spoerri.
Quello che vedete non è né cibo, né arte - il titolo del nuovo progetto di Galleria Gaburro nello spazio espositivo di via Cerva 25 a Milano - esplora l’immaginario di Daniel Spoerri con un percorso di 27 opere che, dal 30 Ottobre 2024 al 31 Gennaio 2025, sfidano la percezione dei visitatori intrecciando presenza e assenza, reale, iperreale e surreale.
“Siamo legati a Daniel da circa dieci anni, ci siamo incontrati in Austria durante una festa di Pentecoste di Hermann Nitsch. Parlando con lui, ho colto quel carisma e quella forza che appartengono ad un grande maestro. La sua personalità, ruvida ma incredibilmente acuta e perspicace, mi ha affascinato. Da allora, abbiamo sempre creduto e investito nel suo lavoro. Il nostro rapporto con Iain, invece, è molto più recente: ci ha accolto nella sua casa-studio a Manchester, e noi lo abbiamo ospitato qui in Italia. Tra Milano, Verona e Firenze, gli abbiamo fatto scoprire le meraviglie della storia dell’arte italiana” Giorgio Gaburro, Founder di Galleria Gaburro.
La mostra collettiva - curata da Matteo Scabeni con lavori firmati da Iain Andrews, Leda Bourgogne, Nebojsa Despotovic, Daniel Spoerri e Malte Zenses - interpreta infatti l’alchimia della tavola, dove tutto è una trasformazione costante e ripetuta della realtà.
Daniel Spoerri ha segnato una svolta nella storia dell'arte preservando scene di vita quotidiana, come i rituali legati al consumo dei pasti. La sua pratica, in linea con il Nouveau Réalisme, consiste nel repêchage di oggetti consunti, de-contestualizzandoli per renderli altro. Nei suoi tableau-piège (quadri trappola), ricostruisce le architetture delle tavole imbandite, intrecciando simbolismi e suggestioni intime e biografiche.
Le opere di Iain Andrews ibridano episodi biblici e testi come Paradise Lost, creando vortici di colore dove forme dettagliate si mescolano a elementi appena accennati per coinvolgere stimoli psicologici e stratificazioni fisiche di colore e significato. Andrews cattura un’atmosfera surreale e un dolore esistenziale, liberando l’arte attraverso la leggerezza del gesto pittorico. La stessa leggerezza degli oggetti appesi alle pareti, intrappolati nella rappresentazione, di Spoerri.
Indagando le pratiche di controllo del corpo, luogo di volontà, Leda Bourgogne esplora il tema dell’auto-difesa e dell’auto-controllo. Le sue opere, contrapposte per materiali, riflettono un andamento tra stress e distress, rappresentando un percorso di liberazione e riappropriazione dell’identità attraverso contrazione, concentrazione e catarsi.
Nebojsa Despotovic si appropria degli anfratti misteriosi della memoria per celebrare la pittura come narrazione intima e personale. Le sue opere, caratterizzate da atmosfere espressionistiche, esplorano la quotidianità degli oggetti di Spoerri, creando un nesso tra realtà e soggetto in cui le figure si collocano sul fragile confine tra ciò che è vero e la deformazione estetica del ricordo.
Le opere di Malte Zenses ampliano il vocabolario della pittura astratta e del nuovo realismo, integrando ricordi e luoghi in codici astratti. Le sue immagini creano un’armonia tra personale e impersonale, accompagnando lo spettatore in un percorso di riflessione. La sua poetica esplora memoria e oblio, offrendo un’educazione al ricordo e alle sensazioni che ci ancorano alla realtà e alla vita.
Sul segno del gesto artistico di Spoerri, che consisteva nell’attingere da ciò che è reale per agire nella sua rielaborazione estetica trasformando inevitabilmente l’oggetto in altro, la narrazione della mostra è infatti costruita attraverso una tensione reciproca tra due dimensioni: l’immanente, il reale – quel luogo in cui la trasformazione avviene – e l’alchemico, l’oltrereale – quel luogo fisico e metaforico che si crea dopo l’alterazione della materia. Le differenti visioni poetiche degli artisti si intrecciano creando un dialogo su questa tensione impossibile tra la realtà e la sua trasformazione e trasfigurazione, tuttavia pur sempre e inevitabilmente legata alla realtà.
Lo spazio della mostra è dunque uno spazio senza limiti e confini definiti (se non quelli, naturali, delle opere) in cui questa indagine sul cibo si intreccia alla sua memoria e al suo processo di trasformazione.
Dunque, “quello che vedete non è né cibo, né arte”.
Quello che vedete non è né cibo, né arte
Galleria Gaburro, via Cerva 25 Milano
Dal 30 Ottobre 2024 al 31 Gennaio 2025
Inaugurazione e cocktail martedì 29 Ottobre, ore 18.30
Apertura mostra 30 Ottobre 2024
Orari di apertura dal martedì al sabato
Dalle ore 11.00 alle 13.00 dalle 14.00 alle 19.00
Galleria Gaburro
Via Cerva 25,
20122 Milano
info@galleriagaburro.com
www.galleriagaburro.com
Tel. +39 02 99262529
Testo curatoriale
Quanto l’estetica del cibo abbia assunto una dimensione estremamente pervasiva nella nostra quotidianità può essere facilmente testimoniato dall’immensa diffusione delle immagini all’interno dei mezzi di comunicazione: sui social network i nostri pasti vengono immortalati da immagini che, scadute 24 ore, spariranno oppure in pietre miliari che rimarranno per sempre visibili ad altri utenti; immagini più o meno di repertorio attraversano i telegiornali e la carta stampata attraverso riviste più o meno specializzate o come circondario di un’identificazione estetica del gusto in cui siamo completamente immersi. Inevitabilmente, questa suggestione culturale e sociale influenza, con una prospettiva marcatamente precisa, l’arte più o meno contemporanea. Spesso, bisognerebbe fondamentalmente interrogarci su cosa sia, effettivamente, il contorno di questa ossessione bulimica per le forme del cibo 1.
Piatti realizzati da trattorie, fine dining, ristoranti gourmet, tristellati Michelin o rosticcerie si rispecchiano a vicenda nella comunanza atipica di alcune pratiche. Un rituale di condivisione senza tempo che manifesta la sua importanza con la sua diffusione capillare nello spazio e nel tempo, una dinamica di repressivo controllo sul corpo e sulla mente, un’ossessione marcatamente erotica. Ma anche, ed è qui l’importanza paradigmatica della sua presenza, una trasformazione costante, ripetuta e alchemica, della realtà. Una ricetta viene a configurarsi come uno spaccato di un processo in cui ingredienti grezzi vengono a trasformarsi in nuove forme e queste forme possono essere riproposte in infinite configurazioni in piatti più o meno elaborati. Una ricetta non è più soltanto una ricetta ma si trasforma in un’esperienza sui fenomeni che regolano le dinamiche della realtà. Fondamentalmente, tanatoprassi: il cibo regola la vita, il sostentamento, opponendosi all’ineluttabile presenza della morte 2. È interessante osservarne lo sviluppo dell’estetica nei pochi decenni appena trascorsi, senza citare le stupende scenografie architettate dalle civiltà greche, etrusche e romane, attorno e nel cibo.
Se, nella società del consumo, il bisogno di nutrirsi veniva assimilato come paradigma della progressiva necessità di sopravvivenza, ossessiva negazione della morte e della malattia, nella società dello spettacolo il piatto ha assunto le caratteristiche che oggi possiamo riconoscere come la gradevolezza estetica, la ricercatezza del gusto, l’esclusività dell’accesso a certi luoghi considerati reali templi del nutrirsi. Il cibarsi è progressivamente mutato da necessità quotidiana a spettacolarizzazione della sua quotidianità. Giungendo nella società della sorveglianza capitalistica digitale si tratta pur sempre della celebrazione estetica della quotidianità con il bisogno, impellente, di consumare immagini, contenuti 3 e non più nutrirsi per sopravvivere.
Un taglio netto all’interno della storia dell’arte: Daniel Spoerri. L’artista romeno ha dichiarato, in un’intervista del 2015 al Museo Novecento di Firenze, che il suo gesto artistico consisteva nell’attingere da ciò che è reale - l’oggetto, in quanto oggetto - per agire nella sua rielaborazione estetica, trasformando l’oggetto inevitabilmente in altro. Spoerri conserva e preserva scene di vita quotidiana4 facendo riferimento alle ritualità spettacolari del consumo dei pasti o di qualsiasi azione quotidiana. Nella stessa intervista, Spoerri ha smosso un concetto fondamentale (che si può ritrovare sia nella mostra Dyllaby del 1962 allo Stedelijk Museum di Amsterdam sia nella vasta retrospettiva a lui dedicata nel 2021 al MAMAC di Nizza The Theatre of Objects): la tavola è quel luogo di trasformazione e metamorfosi della materia che sarà nuovamente trasformata una volta ingerita. È un chiaro parallelismo, secondo l’artista, al gesto di Re Mida: la trasformazione alchemica, un processo esoterico in cui non si modifica solo la sostanza degli oggetti, ma anche il loro significato ontologico.
A partire dall’aforisma di Spoerri, che dà il titolo alla mostra, Quello che vedete non è né cibo, né arte, all’interno degli spazi della Galleria Gaburro di Milano, costruisce un percorso attorno all’atto del mangiare. Sul cibo, con e senza il cibo, attraverso il cibo e il corpo, l’esposizione intreccia reale, iperreale e surreale nella poetica di cinque artisti: Iain Andrews, Leda Bourgogne, Nebojša Despotović, Daniel Spoerri, Malte Zenses.
La narrazione è costruita attraverso una tensione reciproca tra due dimensioni: l’immanente, il reale - quel luogo in cui la trasformazione avviene -, e l’alchemico, l’oltrereale - quel luogo fisico e metaforico che si crea dopo l’alterazione della materia. Nella sua parzialità, la mostra vuole indagare questo processo di trasformazione della materia. Le differenti visioni poetiche degli artisti si intrecciano e costruiscono un dialogo su questa tensione impossibile tra la realtà e la sua trasformazione e trasfigurazione - tuttavia, pur sempre, inevitabilmente, legata alla realtà.
Ciascun artista declina, consapevolmente, un aspetto della poetica di Spoerri in maniera molteplice, costruendo un intero percorso attraverso queste assonanze e consonanze incostanti e non sempre coerenti. Lo spazio della mostra è uno spazio senza limiti e confini definiti (se non quelli, naturali, delle opere) in cui questo contorno sul cibo si intreccia alla sua memoria, al suo processo di trasformazione, al sogno, al conflitto e alla sua risoluzione, alle prospettive di controllo che lascia irrisolte, alla libertà, celebrando e omaggiando la poetica del grande artista romeno.
Daniel Spoerri concepisce la propria pratica, in linea con gli esperimenti del Nouveau Realisme, come un repechage di oggetti consunti, in cui le tracce della realtà sono immediatamente percepibili. Agisce come un rigattiere de-contestualizzando gli oggetti prelevati per renderli altro 5. Nei suoi tableau piège (letteralmente quadri trappola), ricostruisce le architetture delle tavole imbandite intrecciando simbolismi, narrazioni e suggestioni intime e biografiche.
Allo stesso modo, Nebojša Despotović si appropria di quelle dimensioni più o meno lontane della memoria per celebrare la pittura in quanto narrazione intima e profondamente personale. Episodi al limite con il folkloristico, scene trasognate “nell’ombra del presente” 6, atmosfere espressionistiche in cui la prospettiva del suo sguardo costruisce il nesso inscindibile tra la realtà ed il soggetto. È qui che la quotidianità degli oggetti di Spoerri attraversa il tempo per farsi memoria intimamente biografica. Attraverso tracce e ricordi, Despotović osserva il mondo e lo riproduce nella sua ambiguità: le figure sono sul confine sottile e fragile tra ciò che è vero e ciò che è soltanto la deformazione estetica del ricordo.
In questa quotidianità armonica, emergono visioni psicotrope e surreali.
La poetica di Iain Andrews vede coinvolti stimoli psicologici e stratificazioni fisiche (di colore) e di significato differenti. L’artista ibrida episodi biblici o ripresi da testi come Paradise Lost (di John Milton) costruendo inebrianti vortici di colore in cui le forme appaiono, nella stessa rappresentazione, incredibilmente dettagliate o appena accennate. Nell’intero processo, il paradosso costituisce una prospettiva esistenziale: episodi provenienti da storie – reali - drammatiche si mescolano come i colori - infiniti - della sua tavolozza. Andrews si appropria di quell’atmosfera trasognata, vagamente surreale, del dolore esistenziale: una leggerezza perturbante in cui si inserisce quel dolore che l’arte libera e purifica. La stessa leggerezza materica degli oggetti, appesi a parete, intrappolati nella rappresentazione di Spoerri.
Nel discorso liminale tra il controllo del corpo, la dieta, e l’esasperazione, si inserisce la narrazione di Leda Bourgogne. Le sue opere indagano quelle pratiche di controllo del corpo che lo configurano come luogo di volontà assumendo le istanze proprie dell’auto-difesa e dell’auto-controllo. La scelta, profondamente personale, di costruire contrasti materici tra le opere della propria produzione risponde a questo continuo andamento altalenante tra lo stress e il distress: una progressiva liberazione e riappropriazione dell’identità che passa attraverso la contrazione, la concentrazione, e la catarsi.
Le opere di Malte Zenses ampliano il vocabolario della pittura astratta e del nuovo realismo integrando, in modo mirato, un ricordo, un luogo o una fotografia in cui i riferimenti personali sono mascherati da un insieme di codici astratti, composti da simboli, segni e brevi aforismi. Immagini asciutte che creano un’armonia intrinseca tra il personale e l’impersonale. Si tratta, dopotutto, di una rappresentazione intimamente esistenziale: l’artista si pone in ascolto di quelle forze sotterranee cercando di farle emergere in queste tele appena accennate. Memoria e oblio, trascendenze interrotte dal peso dell’immanenza, atmosfere indistinte accompagnano lo spettatore in un percorso di pura riflessione personale ed estetica. Si tratta di un’educazione al ricordo e a quelle sensazioni più o meno lontane che ci ancorano profondamente alla realtà e alla vita.
Un’antologia del reale, un reale così reale da essere uberreal 7, nell’accezione di Thomas Palzer. Non iperreale, ma oltrereale: una dimensione allo stesso tempo superiore e intellegibile, articolata attorno alla compenetrazione tra immanenza e trascendenza, simboleggiata da un certo approccio dicotomico tra digitale e virtuale. Per Palzer, nell’epoca dell’ipertrofia comunicativa e mediale, l’uso spasmodico delle immagini ha costruito una dimensione, l’oltrerealtà, in cui gli oggetti sono “come sono fotografati” 8. Il confine tra immagine e oggetto si è assottigliato fino ad evaporare nella rappresentazione artistica. L’estetica dell’occhio deformato della nostra contemporaneità non solo influenza la produzione degli oggetti, ma anche la stessa funzionalità - estetica e concettuale - dell’oggetto in sé.
Per sopperire a questo gap estetico e sociale tra ciò che è rappresentato e ciò che è reale, l’esposizione tenta di ricostruire questa oltrerealtà (Uber Realitat). Uno spazio intimo in cui presenze strane ed inquietanti, forme più o meno aliene, immagini più o meno distorte dialogano nella disarmonia dovuta al contrasto tra le varie rappresentazioni eterogenee. Un equilibrio parossistico tra ciò che è, ciò che permane, e la sua, paradossale, natura effimera. Fuori dal tempo, fuori dallo spazio, collocate secondo accostamenti non regolari, le opere ci intimano a perseguire i nostri ricordi, i nostri sogni, le nostre vane vacuità: lo spettatore è invitato a percepire questa malinconia visiva per riappropriarsi, innanzitutto, dei propri ricordi immedesimandosi nella rappresentazione.
In questo difficile equilibrio tra significato e percezione, emerge il rapporto tra verità e finzione che sta alla base concettuale della riflessione. Quale è il ruolo che questi oggetti - le opere d’arte - ricoprono? Le forme hanno un significato o sono solo ciò che sono? E che cosa sono, di per sé, queste forme? Quale è la loro reale funzione estetica? La mostra indaga questa prospettiva tanto complessa quanto visibile nelle lunghe, ma immediate, narrazioni che ciascuna opera vuole far emergere e costruire.
E se, per riprendere Nicolas Bourriaud, “l’opera d’arte attuale non gode di alcuna autonomia rispetto alla produzione ordinaria di oggetti” 9, questo percorso non reclama alcuna autonomia estetica ma semplicemente segue la forza della libertà. Quella libertà innata, atavica e ancestrale, che permette all’artista di ampliare lo sguardo oltre una prospettiva anatomicamente analitica di una realtà costellata dalle infinite sfaccettature multiformi. Quella bellezza stonata, malinconica, della sfumatura, così falsamente oggettiva, del ricordo. Quella dolcezza, così commovente, di un perfetto istante di spensieratezza: seduti, ad un tavolo - con una, due, dieci persone, o con nessuno -, in un’epoca che ci appare così distante nel tempo, a consumare quel piatto che, ancora oggi, ci riporta alla nostra infanzia.
Dunque - per dieci minuti, per un’ora, o per sempre - siate nuovamente bambini: stupiti di fronte alla bellezza che supera un’immagine per farsi un sogno figlio di un sonno senza sogni. Non lo ricorderete, ma sarete pervasi dalla sua dolcezza.
1 N. Borriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo. Postmedia Books, Milano, 2005.
2 M. Foucault, Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Feltrinelli, Milano, 2015.
3 B.C. Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere. Nottetempo, Milano, 2016.
4 H. Guenin, R. François (a cura di), The theater of objects by Daniel Spoerri. Silvana Editoriale, Milano, 2021.
5 M. Bazzini (a cura di), Riordinare il mondo. Maretti Manfredi, Imola, 2018.
6 E. Viola, A. Tecce (a cura di), Natura Morta. Nebojša Despotović. Trascrizione della conferenza presso il Museo di Capodimone, Napoli, 30/05/2014.
7 T. Palzer, Vergleichende Anatomie. Eine Geschichte der Liebe. Matthes & Seitz, Berlino, 2018.
8 Ibidem, P. 85.
9 N. Bourriaud, Standards. In A. Bonito Oliva (a cura di), XLV Esposizione Internazionale d’Arte. Punti cardinali dell’arte. Marsilio, Venezia, 1993. P. 322.
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