L’artista Marco Cingolani presenta per la prima volta il suo “studio d‘artista”, un’antologia di opere, colori, strumenti e fonti di ispirazione che raccontano la sua arte. La mostra Atelier du peintre sarà aperta al pubblico dal 6 Giugno al 15 Settembre 2024 nei propri spazi di Via Cerva 25 a Milano.
“Voglio mostrarvi che cosa mi serve per dipingere i quadri; quali oggetti, pigmenti, pennelli, pastelli, mostrarvi dove mi siedo e dove vi farò sedere. Voglio mostrarvi le facce dei miei migliori amici, spesso sono morti da decenni, a volte da secoli oppure fortunatamente vivi: dipingendo penso a loro e voglio farveli conoscere”, spiega Marco Cingolani.
L’allestimento, curato dallo Studio Cingolani, mette in scena 23 opere di anni diversi, che abitualmente, nello studio di via Moscova, circondano il pittore comasco sia per piacere personale che per ispirazione. Un luogo in cui le opere vengono lasciate “maturare”, “invecchiare” come il vino. Ma non solo. Perché negli spazi milanesi della Galleria Gaburro saranno esposti anche colori e pennelli di ogni sorta, oltre al tavolo da lavoro di Cingolani, un grande banco con rotelle, ideale per gli spostamenti all’interno dello studio. L’intento della mostra è quello di ricreare la struttura eterogenea e polifonica dello studio d’artista. Per questo sono state realizzate anche tre gigantografie dell’atelier, installate sui muri del lato destro della Galleria Gaburro, che accoglieranno sia le foto ritoccate dei “paparazzo” che i teatrini biografici, nonché piccole opere antologiche e memorabili dell’artista.
“Io e Marco ci siamo conosciuti nel 2001, quando in Galleria abbiamo ospitato la mostra Società Anonima del Colore. Da lì, è nata una solida amicizia. Ho fortemente voluto quest’ultimo progetto per mostrare dove Marco lavora, dove trascorre giorni e notti, dove si alternano travaglio e leggerezza, gioia e sofferenza. Lo studio è la forma della sua mente, del suo pensiero, la sua energia. Mi diverto sempre a raccontare che una cosa ci unisce - entrambi siamo credenti - mentre una ci divide: Marco dice di commettere sempre gli stessi errori, mentre io no! Ne faccio sempre di nuovi. Sicuramente, in questa mostra emerge il suo processo creativo, fatto di questi continui sbagli e ripensamenti, ma anche di sogni e desideri” commenta Giorgio Gaburro.
L’atelier è un luogo privato che diventa così pubblico attraverso le opere, mettendo in scena le ossessioni e i vizi del pittore, materiale indispensabile per produrre la virtù dell’arte.
“Il titolo della mostra – spiega Marco Cingolani - rimanda al famoso quadro di Courbet, che si ritrae nel suo studio circondato dai suoi amici: allo stesso modo prendo i cartelli con i ritratti della "fan parade" sparpagliandoli nella galleria””.
Tra quelle esposte a firma di Cingolani, l’opera più importante sarà proprio Fan parade, una grande installazione di cartelli di legno attaccati ad un bastone, pronti per essere portati in una manifestazione: i volti rappresentano i personaggi di cui Marco Cingolani si considera un fan e che, a suo dire, lo aiutano nel dipingere; Da Enrico Mattei e Iris Apfel, da Matteo Guarnaccia a Kenneth Anger, da Aldo Nove alla Gubaidulina. “Le mie muse migliori sono morte da secoli, la loro musica, le loro azioni e le loro parole risuonano in me e mi aiutano a trovare i colori giusti. In questa mostra ve li presento”, commenta Cingolani.
In mostra anche disegni di diversi periodi e opere inedite come "La vista veneziana dallo studio di Turner nell’albergo Europa", un olio su tela terminato per la mostra, e sulla parete centrale sarà esposto un grande quadro ispirato alla famosa "L'insegna di Gersaint" dipinta da Antoine Watteau nel 1720. Ai lati saranno invece collocate due tele ispirate dall'atelier del Tiepolo a Würzburg, magnifica reggia decorata dal pittore nel 1750.
Di grandi dimensioni anche la tela "Revenge Nature: Waterloo after the battle", di 250x300 cm, da anni posta nell'ampio ingresso dello studio di via Moscova.
INFORMAZIONI
Marco Cingolani
Atelier du peintre. Piccola antologia di colori, persone, opere e omissioni.
Galleria Gaburro
Via Cerva 25, 20122, Milano
Dal 6 Giugno al 15 Settembre 2024
Inaugurazione e cocktail Mercoledì 5 Giugno, ore 18.30
Apertura mostra 6 Giugno 2024
Orari di apertura dal martedi al sabato
Dalle ore 11.00 alle 13.00 dalle 14.00 alle 19.00
Anche la bellezza a basse temperature è bellezza
Iosif Brodskij
(Fondamenta degli incurabili, 1991)
L’importanza dell’atelier risiede nell’essere il centro pulsante della vita - e dell’arte - che scorre incessantemente alla ricerca del tempo: essere informe che distrugge e uccide, costruisce e celebra. Profondamente, ogni cosa è votata alla sua distruzione, è effimera, non può in alcun modo pretendere di essere durevole. Per costruire una prospettiva sull’opera di Marco Cingolani, il tempo deve plasmarsi da essere a strumento: deve permettere sincronia (simultaneità) e non diacronia (linearità).
Nella mostra Atelier du peintre. Piccola antologia di colori, persone, opere e omissioni viene ricostruita la dimensione esistenziale ed essenziale dell’alcova dove l’artista lavora. A partire dal riferimento all’Atelier du peintre (1852) di Courbet, Cingolani costruisce un’antologia in cui ci circonda di tutta quella che è la sua realtà. Un esperimento azzardato: riportare l’esperienza della visita nello studio di un’artista in maniera immediata e pubblica; svelare quella dimensione intima e personale per mostrarla chiaramente allo spettatore. Lo studio, fuori dallo studio, senza lo studio, ma con gli oggetti che lo compongono.
All’interno del percorso, stimoli differenti ed eterogenei si alternano, ci sorprendono, appaiono incostanti sulle pareti dello spazio espositivo. Ecco che incontriamo la Fan Parade (2024 – in corso): cartelli su cui l’artista ritrae i suoi riferimenti. Modelli, soprattutto non artistici in cui si identifica; personaggi di una storia biografica, personale, che sono il motore della sua pittura. Da Enrico Mattei e Iris Apfel, da Matteo Guarnaccia a Kenneth Anger, da Aldo Nove alla Gubaidulina, queste figure sono l’eco ancestrale di quei suoni che si tramutano in segni nella pittura di Cingolani. Si tratta di figure disarmoniche, di estrazione, provenienza ed epoche diverse e più o meno lontane. L’artista si definisce, ironicamente (ma neanche troppo), un fan di queste personalità complesse, articolate, eclettiche. In un certo senso, hanno segnato momenti importanti di una storia marginale: non la Grande Storia dei mutamenti geopolitici ed economici, ma una narrazione culturale (a volte, persino sub-culturale) che si è susseguita nel corso dei decenni. Cingolani vuole presentare allo spettatore questi soggetti in una caccia al tesoro negli spazi della Galleria. Sparpagliati sulle pareti, nascosti o camuffati nell’allestimento - teatrale - del suo studio. Emergono nell’esposizione come la parata degli spettri delle idee che si palesano nella mente dell’artista durante il processo creativo.
La serie Paparazzi (2023– in corso), dedicata al fotografo che ruba le immagini dei divi immortalato da Fellini ne La dolce Vita, riporta al medesimo immaginario. Quello che era solo il cognome di un fotografo, diventa nel mondo il termine per definire quei fotografi di cronaca che riprendono i personaggi famosi in situazioni particolari e, alle volte, compromettenti. Cingolani ha ritoccato centinaia di fotografie provenienti dal suo archivio segreto, in cui ripercorre la storia intima della sua vita, mostrando il flusso del processo creativo. Una narrazione funambola sul confine sottile tra l’autobiografico ed il poetico; una sorta di antropologia visiva in cui realtà e finzione restano indistinguibili. Dopotutto, lo studio è esattamente quel luogo in cui le associazioni diventano sinestesie: l’odore dell’olio, il suono della musica, le immagini rarefatte che l’artista riporta nelle sue opere.
È l’inizio e la fine dell’atto creativo. Opere di epoche diverse si sovrappongono nello spazio creando un sistema intricato e complesso in cui, fondamentalmente, non c’è più differenza tra ciò che è stato, ciò che è, e ciò che sarà. Troviamo anche due tele di grandi dimensioni: L’insegna di Gersaint - il mio studio di giorno (2024), ispirato a L’insegna di Gersaint (1720) dipinta da Antoine Watteau; Revenge Nature: Waterloo after the battle (2016) in cui immagina uno scenario liminale. Ad arricchire il percorso, sono esposti disegni di diversi decenni e due tele ispirate all’atelier di Tiepolo a Würzburg – Io e Tiepolo a Würzburg (2024) e Felice di vederti qui (2024).
Dichiarando i resti della propria vita un’opera d’arte, egli reificava la figura dell’artista assente con la stessa eloquenza con cui il cane triste ritratto accanto a una poltrona vuota, in una tela vittoriana, richiama quella del padrone scomparso.
Con questa metafora, Bryan O’Doherty (in Inside the white cube, Johan & Levi, 2012) ci permette di comprendere, essenzialmente, lo scopo dell’esposizione. Spostare lo studio in galleria significa non solo mostrare quella mutazione magica e alchemica che è il gesto dell’artista, ma anche offrire allo spettatore una feritoia attraverso la quale osservare l’artista - senza l’artista. Uno spaccato della sua vita in cui è possibile riconoscere ciò che l’arte è davvero: tutto ciò che non si vede. Non senza modelli precedenti – come I Coniugi Arnolfini (1434) di van Eyck, Las Meninas (1656) di Velazquez, L’arte della pittura (1672) di Vermeer - già Courbet aveva intuito che dipingere sé stesso all’interno del proprio studio coincideva con una rivoluzione pittorica: mostrare la natura radicale di questo spazio privilegiato in cui solo l’artista può entrare. Anche se in una modalità diversa, Cingolani non si rappresenta direttamente ma indirettamente attraverso gli oggetti che abitano lo studio: mensole, libri, le sue muse - che non abitano il tempo -, i suoi strumenti, le sue tavolozze. I suoi luoghi sono “officine dove il <<corpo>> non si sporca le mani, ma si concentra sulle idee” (Vincenzo Trione, Prologo Celeste, Einaudi, 2023), la trasposizione plastica della sua proiezione mentale. Si potrebbe dire che non è lo studio di Cingolani ad essere presente, ma che è la Galleria a sospendere la sua esistenza permettendo all’arte di abitarla. La mostra è costruita attraverso questo paradosso: quello che è esposto non è il luogo in cui si crea l’arte, ma la sua rappresentazione. Un cortocircuito per cui gli oggetti, privati del loro contesto, perdono quell’aura che gli appartiene. Tuttavia, essendo inseriti in quel luogo in cui, seguendo Arthur Danto e - in un certo senso - l’alchimia duchampiana, l’oggetto si traduce in arte grazie alla sua esposizione: gli stessi oggetti sono effettivamente opere d’arte. Senza avere la pretesa di decostruire l’intero sistema dell’arte, Marco Cingolani vuole permetterci effettivamente di arrivare all’origine del pensiero, di attivare un nuovo dialogo - molto più vicino, familiare e umano - con l’artista. Ci esorta ad entrare senza timori nel suo studio. Profondamente, non è niente di più e niente di meno della rappresentazione della quotidianità.
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