di Achille Bonito Oliva
Mario Schifano elimina dall'immagine il carattere naturale, pittura o fotografia. La fotografia in particolare diventa uno strumento di mobilità concettuale che evita qualsiasi identificazione dell'artista con l'opera e dell'arte con il mondo. La superficie diventa il campo di apparizione iconografica su cui si intrecciano l'occhio meccanico dell'obiettivo fotografico e la pulsione della mano che segna la foto. Schifano dunque opera come sempre in una doppia direzione. Più che il grande senso della storia, generalmente catturata attraverso la pittura, con le polaroid invece egli cerca di restituirci gli attimi fuggenti della vita telematica, le pulsazioni di una cronaca sfaccettata e multiculturale. L'artista multimediale in questo caso vive molti climi culturali, transnazionali, policromatici e poliglotti. Sempre comunque produttivi di un costante presente che rifugge la nostalgia del passato e piuttosto cerca di sospettare i segnali del futuro.
La fotografia istantanea nella sua frammentarietà tenta comunque di dare un'idea di totalità, sistematicamente attenuata da un'irruzione ironica che distanzia il pathos della rappresentazione. Il tema costante, documentato anche daquesta mostra, è quello della relazione dell'artista col mondo che lo circonda, una spaziotemporalità pulsante di immagini, suoni, forme e colori.
Così la fotografia in Mario Schifano ormai ha varcato il guado e non può più essere considerata un linguaggio subalterno dell'arte. L'occhio meccanico e obiettivo della macchina fotografica non ha alcun automatismo che lo obbliga a coniugare la stessa ottica, ma è aperto a molti stimoli e memorie che che gli consentono ormai variazioni e spostamenti.
Comunque resta il fatto che qui la fotografia tende sempre a sottrarre un dato alla realtà delle sue relazioni d'insieme (il flusso catodico) e consegnano alla definitività dell'attimo e dell'istantaneità.
La fotografia dunque effettua come uno strappo delle cose, una riduzione di superficie attraverso cui affiorano persistenze e residui di profondità. L'occhio del fotografo Schifano parte da una pratica costante, che è quella dell'assedio, di uno sguardo circolare per poi passare a un affondo che viviseziona il panorama di insieme e estrapola il particolare. Velocità e congelamento sono le polarità entro cui si muove la fotografia. La velocità è dettata dalla necessità di passare in rassegna il campo visuale d'insieme, su cui scorre l'occhio prensile del fotografo.
Il congelamento è il portato della scelta e della preferenza denunciata dalla inquadratura che stabilisce così il bordo della visione, il confine che separa e privilegia il dettaglio. In questo senso la fotografia è un esercizio linguistico, in quanto determina un'oscuramento delle parti non messe a fuocodall'obiettivo e lasciate fuori dall'immagine, col conseguente abbagliamento del dettaglio privilegiata.
Mario Schifano ha capito che il linguaggio dell'immagine fotografica non si discosta da quello delle altre arti. L'arte in generale è sempre pratica splendente di un'ambiguità senza soste, il linguaggio dell'arte non parla mai direttamente e frontalmente del mondo ma lo coniuga sempre obliquamente e trasversalmente. Insomma egli ha capito che anche la fotografia, che tradizionalemente sembrava porsi frontalmente rispetto alle cose come pura registrazione, possiede invece un occhio obliquo e laterale che guarda le cose e le riflette modificate di segno, spostate in un altro luogo. Mario Schifano ha compreso che la fotografia lavora nella direzione del ready-made, dell'oggetto bello e fatto, che comunque non resta mai tale dopo il suo spostamento sulla pelle della pellicola.
Il taglio che il fotografo effettua, costringe il dato ad approdare a sua involontaria assolutezza, confinante con una splendente e esibita solitudine che annulla ogni realtà confinante, riducendola a puro sospetto visivo, cioè a fantasma che si può soltanto ipotizzare.
Il fantasma in questione è quello telematico, l'immagine di un territorio televisivo entro cui l'artista ha scelto di abitare stabilmente. Il metalinguaggio ha sempre sostenuto la sensibilità di Mario Schifano che ha avuto con le tecniche di riproduzione meccanica dell'immagine un rapporto flessibile e leggero, quasi orientale.
Ma anche segnato dall'euforia impaziente che dava mobilità ad un occhio volubile e cannibalesco, pronto a catturare i dintorni televisivamente esterni, transitanti negli interni del suo spazio domestico.
Ma l'occhio è sempre accompagnato dalla febbrilità della mano, continuamente in esercizio. Da qui la coazione a segnare migliaia di fotografia con la griffe della sua pittura. Così le stimmate di Mario Schifano slittanti e mai geomatriche segnano anche il campo della fotografia, per un nomadismo creativo capace di lasciare piccole tracce, anzi minime. Un cortocircuito tra interno ed esterno, finestra del mondo e occhio fotografico, tubo catodico e fisiologia di una mano sempre graziosamente impulsiva.
Scorrevole e delicato il passaggio sul mosaico di fotografie disposte in migliaia di esemplari, esemplificazione moltiplicata di un tassello infinitamente bidimensionale su cui scorre velocemnete l'artista con la sua mano e l'occhio dello spettatore col proprio sguardo.
Sotto la mano dell'artista, prima, e l'occhio dello spettatore, dopo, transitano immagini appartenenti al campo affettivo e a quello sociale, in cui un intreccio tra il sentimentale e l'esplorativo, secondo una frequenza volubile di tempo e spazio. Schifano si conferma artista totale, produttore di un'arte istantanea che sintetizza nell'occhio e la mano uno spaccato di vita senza soluzione di continuità.
Un eclettismo stilistico guida l'occhio o regge la mano di Mario Schifano che non si identifica mai con l'oggetto o il personaggio televisivo sottratto dal piccolo schermo e miniaturizzato sulla superficie della Polaroid con un cerimoniale aggiunto, una svelta decorazione pittorica che sigilla l'immagine.
L'assemblaggio visivo avviene fuori da qualsiasi ordine progettuale, ma segue il dettaglio di un accumulo che genera ogni volta un diverso statuto iconografico.
È lo stile dunque a determinare la realtà dell'arte che non si mette in competizione col mondo ma stabilisce un accento di originalità. Sorprendente e leggero.
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