mostre

Gian Marco Montesano. Le porte des Brumes

Curata da Luca Beatrice
Dal 15/01/2005 al 28/02/2005
Galleria Boxart, Verona

Nuove confessioni di un reazionario  

Caro Gian Marco,
sarà l’attanagliante pigrizia che mi prende ogni anno nei giorni prima di Natale insieme al desiderio di chiudere le ultime pendenze prima di dedicarmi un poco ai parenti e poi andarmene meritatamente a svernare qualche giorno in Versilia, o forse la predisposizione alla malinconia dovuta in parte al calendario, in parte proprio alle immagini dei tuoi quadri, beh l’idea proprio non veniva.

Pensavo di aprire con una citazione dall' amato Simenon, che peraltro mi ha fornito l’aggancio per il titolo Le port des brumes. Erroneamente credevo che da questo romanzo del 1932 Marcel Carné avesse tratto il suo capolavoro Quai des brumes, e invece ero fuori strada. Insomma, mi piaceva però accostare le eccezionali qualità letterarie del padre di Maigret alla tua capacità di coinvolgere lo sguardo in una precisa atmosfera per mezzo di una sola immagine. Non mi si dica che questi sono caratteri tipici dei rispettivi linguaggi, il romanzo e la pittura, perché senza quel talento che ti fa muovere sempre all’interno di una misura per cui una parola è poca e due sono troppe, senza quella sensibilità unita all’esperienza di capire dove e quando fermare la mano, si avrà sempre e solo un lavoro, mai un’opera.

Se pensi a quanto tempo c’è voluto perché a Simenon fosse finalmente attribuita la giusta considerazione, non un semplice scrittore di libri gialli ma un grande autore di letteratura francese, capirai allora quanta strada deve fare uno che dipinge delle figure e racconta delle storie. Simenon, che si vantava di essere stato a letto con circa diecimila donne, era un mostro di regolarità nel lavoro e scriveva ciò che gli serviva ogni giorno per arrivare in fretta alla conclusione e ricominciare daccapo.

Secondo uno dei più stupidi pregiudizi nell’arte contemporanea invece bisognerebbe produrre pochissimo e mettere da parte, se vuoi essere esclusivo e ricercato. Palle, dettate unicamente dal desiderio di far strategia scimmiottando le regole di un sistema che non ci appartiene. Uno lavora se deve, se ha bisogno, se gli gira, tanto se è bravo e ha del talento cosa c’entra il numero delle opere? Simenon appunto ha subito rarissime cadute di tono e pure noi mestieranti cerchiamo di cavarcela alla meno peggio.

Pensavo, l’altro giorno tornando dalla cena di inaugurazione di una tua mostra: alla fine ci si ritrova sempre i soliti, il "Club degli Amici di Montesano". I discorsi sono sempre gli stessi, politica, paradossi, pettegolezzi, montagna, vacanze, diete, donne, calcio e sempre alimentati da un’aneddotica particolare che li rende tollerabili ogni volta, a beneficio di chi non era con noi a tavola la sera prima. Però, questi "Amici di Montesano": secondo me sono tra le persone più competenti e sensibili nel mondo dell’arte (dico sono ma in realtà so bene di farne parte), ognuno con la propria storia, gusti e scelte diversi, legati tra loro dalla stima e l’affetto per "il Maestro dei Maestri". Una specie di partito trasversale di insospettabili in cui oggi iscriviamo Giorgio Gaburro di Verona, ultimo solo in ordine di tempo.

Ecco vedi, si finisce sempre qui. Questi dannati quadri non sono altro che l’immagine di una concezione del mondo orgogliosamente reazionaria che condivido in pieno anche per marcare la differenza con buona parte del pensiero corrente. La prima volta che hai utilizzato la parola "reazionario", era il 1979 un testo scritto a Parigi e ripubblicato in varie occasioni, devi avere rischiato grosso. Tu e la tua mania di pontificare su tutto, a tirare fuori errori di gioventù, dissociazione, cattolicesimo, revisionismo!

Georg Lukacs affermò che per capire la società francese dell’800 non bisognava fidarsi tanto del realismo di Emile Zola (che lui da buon marxista sapeva viziato di ideologismo) quanto del conservatorismo di Honoré de Balzac (che impietosamente metteva allo scoperto i limiti lasciando al lettore il compito di farsi un’opinione). Se c’è una cosa che oggi non sopporto è la cosiddetta "arte sociale" con cui la buona borghesia tenta di mondarsi la coscienza, uno strumento ipocrita e inefficace, oltre che qualunquista, nel tentativo di elevare al rango di arte la cronaca scandalistica. Oggi mi danno fastidio i pacifisti, quelli, e sono tanti, che usano slogan preconfezionati dimenticandosi in quale parte del mondo sono nati, e che se fossero in un altrove dalla nostra imperfetta democrazia non avrebbero alcuna possibilità di esprimere le loro banali opinioni.

Ho qui davanti a me due immagini di altrettanti tuoi quadri: una Venezia al tramonto e un caffè parigino avvolto nel grigio brumoso che sarebbe piaciuto a Simenon. Questi quadri letteralmente mi commuovono, nel senso che muovono in me il sentimento di una condivisione con le cose che amo, i paesaggi, le atmosfere, le sensazioni che da visive divengono uditive, tattili, fino a coinvolgere gli altri sensi. Sono visioni di un occidente che amo ormai con disperazione, lo vedo come una cosa piccola e quotidianamente minacciata. L’occidente un tempo glorioso e che oggi bisogna difendere come un’amicizia preziosa, di quelle che non puoi tradire.

Molti dei tuoi quadri nascono in montagna perché lassù è nata la nostra democrazia; gli uomini camminano sempre in salita con fatica su distese di neve ovattata ma impervia. Leggevo, anni fa, uno splendido romanzo di Lionel Terray, I conquistatori dell’inutile, un libro che declina il desiderio di utopia con il fascino e lo sprezzo del pericolo. Sono nella bellezza le radici irrinunciabili dell’occidente, e infatti le tue tele sono popolate da donne stupende e fatali, così belle da sopportare (e vincere) il fascino della fine. Mi riferisco a Luisa Ferida, Claretta Petacci, Eva Braun, Marlene Dietrich, ma anche alle anonime atlete che piacevano a Leni Riefensthal o alle lavoratrici dei campi modellate sulle forme scultoree di Silvana Mangano in Riso amaro.

Sono proprio le donne a stemperare la tensione drammatica di altri tuoi lavori –le scene belliche, le effigi dei dittatori- temi sui quali insisti da anni con la consapevolezza che lì stanno le nostre radici. Ultimamente mi capita spesso di andare a Berlino. Nonostante questa grande città cambi faccia ogni volta, rivoltata come un calzino dagli interventi di architettura contemporanea, resta immutato il fascino della tragedia che si respira nei grandi viali, nelle imperiose costruzioni legate a un tempo difficile e barbaro, che per magia torna a essere un film in bianco e nero, mentre il pensiero corre alle sale del varietà, in un unico sentimento della fine.

Ciò che si deve dire della tua pittura, Gian Marco, è dell’assenza totale di nostalgia. Le immagini della storia, patrimonio pubblico, sono sottoposte a una fredda analisi anche nel ricorso al coup de theatre drammaturgico. Nonostante ciò che può sembrare, tu e noi, l’artista e i suoi estimatori, abbiamo lo sguardo proiettato al domani, fiduciosi che ci sia ancora un po’ di tempo tra una fine raccontata e l’incubo di una realtà che nessuno aveva sognato ma da cui ci sapremo difendere.

Ti auguro un felice inizio d’anno, freddo e nevoso.

Luca Beatrice
Torino, 20 dicembre 2004

Inaugurazione