La terra, il cielo. Il sogno di Icaro. - di Roberto Pasini
Fra gli artisti che nella seconda metà del ‘900 hanno amato la velocità, l’acrobazia, il volo, Roberto Crippa occupa senz’altro un posto privilegiato e per certi aspetti unico. La sua opera si innerva di molteplici direzionalità, assume via via nel corso degli anni vesti differenti, si carica di pulsioni spaziali e di umori terrestri, lancia una sfida all’infinitamente piccolo e all’infinitamente grande, coltiva l’antico sogno dell’uomo di librarsi nell’aere e dominare il mondo dall’alto, e imprime al registro della pittura una fibrillante vorticosità senza rinunciare al peso della terra e alle paste cromatiche dense, concedendosi persino il gusto del collage polimaterico, della rutilanza cromatica, della festa ludica più infantile e adulta al tempo stesso.
Crippa eclettico, multiforme, irridente alla logica della coerenza: figura luminosa e discussa degli anni Cinquanta in cui l’arte sceglieva le traiettorie fertili del segno e della materia e dei successivi Sessanta in cui all’orizzonte si stagliava un esercito di oggetti, di merci e beni di consumo, di corpi e mezzi extraartistici, che ben presto avrebbe sommerso, col rumore o col silenzio, le opere e i giorni dell’Informale. Poi arrivarono gli anni del “grande freddo” concettuale. Ma Crippa non si presentò a quest’ultimo appuntamento: la morte lo aspettava alle 16,15 del 19 marzo 1972 all’aeroporto di Bresso: il suo biposto, di fabbricazione cecoslovacca, aveva compiuto a precipizio l’ultima grande spirale. Il sogno di Icaro era finito.
Roberto Crippa (1921-1972) è una delle presenze di maggior vivacità della stagione informale.1 Per la verità la sua partenza si colloca, come per molti altri colleghi, in sintonia con il picassismo che detta legge in Italia nell’immediato secondo Dopoguerra. Il suo è un mettersi al passo coi tempi, ma già con lo scalpitare di chi non crede fino in fondo alla vulgata neocubista, e per così dire le rende omaggio in attesa che qualcosa gli consenta di cambiare rotta. In breve, nel giovane inquieto lombardo il picassismo si trasforma in alfabeto geometrizzante, al capo del nuovo decennio, quasi a voler fomentare un’algebra delle forme, ma ancora con la sensazione che nemmeno questa sia la strada da seguire, sebbene in chiara vicinanza alle posizioni del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), nato proprio a Milano, dove Crippa lavora, nel 1948. E allora ecco che spunta la voglia di trasgredire, di mettersi contro le regole dell’astrazione, inabile a cogliere la vita dinamica del cosmo, che Crippa già sente dentro di sé montare come un fiume in piena. A ridosso, infatti, nascono le opere più intense e ricche di tutta la sua produzione, quelle Spirali che lo lanciano nell’avventura dello Spazialismo, al fianco di Lucio Fontana e delle sue folgoranti intuizioni per rivoluzionare il gesto artistico. Il superamento della forma, la voracità autre, il senso della vicenda cosmica, l’energia embrionale dell’universo: questa è la nuova mappa, assai rigogliosa e frastagliata, in sui s’ambienta la creatività di Crippa. Nelle Spirali l’artista immette la volontà di far uscire il gesto in dinamica piena, vorticosa, libera, indipendente, atomica: a Milano, dove ha sede il quartier generale dello Spazialismo, l’artista è in contatto con Fontana, con Dova, firma alcuni dei manifesti della poetica, si muove in un clima di esaltante innovazione e in qualche modo costituisce la risposta italiana alle maggiori figure d’oltralpe e d’oltreoceano.
Il segno di Crippa non è sciabolante come quello di Hartung, che in sé fa vibrare il dramma cristologico e la ferita della redenzione, e nemmeno fiorettante come quello di Mathieu, che apre a nuovi mondi fra il vessillo medievale e il turbinio della metropoli, e nemmeno come quello neuronico di Pollock, verso cui l’italiano nutre una grande ammirazione e che ha la possibilità di vedere dal vivo, no, il segno di Crippa non è niente di tutto ciò perché in esso si condensa il desiderio di collegare terra e cielo senza la sindrome gotica del tedesco, senza la vitesse del francese, senza la disperazione esistenziale dell’americano: Crippa vola nella vita e nell’arte, sciorina la sua espressività elettromorfa come se egli stesso fosse sceso nel grembo della materia più raffinata e si fosse trasformato in elettrone per una serie di orbite infinite e gioiose. Eccolo sulla giostra della vita, sulla montagna russa del destino: soprattutto nei quadri in bianco e nero agita la bandiera di una libertà intrinseca al mondo e all’uomo, vibra come una fiamma inesauribile di voluttà.
A metà circa del decennio, e con particolare forza nel ’56, la materia si affianca al segno, lo trascina in un gioco di paste alte ma filiformi e promuove la tematica dei Totem. Opere forse meno rapide e scattanti delle Spirali, ma certo ricche di una sensibilità che non sfuggì ai lettori più attenti, come Russoli: “L’opera di Roberto Crippa è stata sempre regolata da questo limpido accordo tra attuale sigla stilistica e primordiale simbolo di entità e di energia naturale”2. In effetti questi imprevedibili e improbabili “elefantini” in un contesto di colore acceso, spesso spremuto direttamente dal tubetto, quasi alla Appel, di cui però non vuol avere il tono magmatico e violento, immettono nel percorso di Crippa un’idea di terra, di animalità, di vibrazione antica, che costituisce l’altra faccia della medaglia: Icaro vuole arrivare al sole, ma sa bene da dove viene; anche se lo slancio verticale lo condiziona, non rinuncia a interrogarsi sulle matrici. E’ un’idea di primordio, distante ma contestuale rispetto a quella che negli stessi anni veniva proposta dagli Ultimi naturalisti, Morlotti in testa. Tra questi vigeva il bisogno di approcciare la natura immergendovisi e recuperandone le linfe primigenie, mentre in Crippa il “richiamo della foresta” passa attraverso l’incarnarsi della spirale nell’immagine zoomorfa perché il suo orizzonte è troppo occupato dall’idea di segno, quand’anche pesante di cromie bizzarre.
Il viaggio a ritroso trova un appuntamento ancor più suggestivo alla fine del decennio Cinquanta, quando nascono i polimaterici, fatti con il legno, il sughero, la carta. Crippa s’immerge nella materia, la sente fisicamente, e non è la materia pittorica di referenzialità naturalistica, quanto invece il materiale vero, quasi a sfidare la contemporanea scelta di Burri. In quest’ultimo il legno, come il ferro, e prima ancora il sacco di tela juta, sono mezzi per gridare la povertà del mondo e la nudità dello spirito, mentre in Crippa i legni sono legni, i sugheri sono sugheri, la carta è carta e tutto sta nel sondare la profondità delle cose, la loro rude apparenza e il loro impatto carico di umori terrestri. Icaro ha appoggiato i piedi per terra.
Ma il suo desiderio è volare. Ecco quindi che alla fine degli anni Sessanta e nel breve scampolo di vita che gli resta fino al 1972 Crippa imbandisce una nuova festa cromatica, mettendo a punto quelli che potremmo definire, riprendendo la bella immagine di Cavallo, “quadri come vascelli con le vele gonfie, carichi di ricche mercanzie”3. Eccolo, il sole. Compare, come cerchio magico e ludico ripetuto, in opere polimateriche che segnano il trionfo del sogno (e non solo del segno) di Icaro, il quale ha finalmente raggiunto la quota che desiderava: sono opere da ammirare per la loro infantile felicità, dove si respira quel gradiente surreale che l’artista porta con sé come un piccolo talismano sulla scorta di Arp, di Ernst, di Brauner. Assistiamo quasi all’urlo di un bambino a cui hanno finalmente regalato il giocattolo che ha desiderato così a lungo: vibrano di luce radiosa questi lavori ultimi, non dimenticando le scansioni geometriche di tanto tempo prima, né la materia accumulatasi cammin facendo, ma sbarazzandosi di ogni remora a essere limpidamente dirette, quasi accecanti e irritanti per gli occhi che si erano abituati alle cromie basse e magmatiche dei legni e dei sugheri. E’ la gioiosa, chiassosa, esuberante “Odissea nello spazio” di un artista che ha ancora voglia di essere bambino.
Crippa è arrivato a “toccare il cielo con un dito”, fuor di metafora. Lo attende la caduta, fatale destino che lo accomuna da un lato a Antoine de Saint-Exupery e dall’altro a Boccioni, altra figura cardine del suo DNA creativo: l’amore per l’aereo nel primo, l’amore per il cavallo nel secondo, poi divenuti tragicamente le cause della fine prematura.
Il vortice si è spento, il sole s’è oscurato, ma restano le loro vibrazioni, solitarie e irriverenti, ricche e ingenue, splendide e povere, a raccontarci una sorta di piccola grande fiaba fra la terra e il cielo.
note
1. A chi volesse approfondire la figura di Roberto Crippa in relazione all’Informale e la panoramica delle poetiche del segno e della materia negli anni Cinquanta, sia in Italia, sia in Europa, sia in America, possono essere utili, per una prima consultazione, i testi di F.Arcangeli, Dal Romanticismo all’Informale, Torino, 1977 e di R.Barilli, Informale Oggetto Comportamento, (1979) Milano, 1988, oppure il mio L’Informale. Stati Uniti, Europa, Italia (1995), Bologna, 2003. Sull’artista in senso specifico e monografico si rimanda, fra i testi bibliografici, a G.Giani, Crippa, edizioni del Cavallino, Venezia, 1954; A.Jouffroy, Crippa, edizioni Schwarz, Milano, 1962; M.Tapié, Roberto Crippa, catalogo galleria Gissi, Torino, 1970; AA.VV., Crippa, edizioni Cortina, Milano, 1971; G.Ballo, Roberto Crippa, catalogo Palazzo Reale, Milano, 1971; R.Sanesi, Roberto Crippa. Dipinti dal 1946 al 1956, catalogo galleria Annunciata, Milano, 1986; L.Cavallo, Crippa, catalogo Centro Tornabuoni, Firenze, 1990; L.Caramel, P.Sega, Roberto Crippa, catalogo Serrone della Villa Reale, Monza, 1999.
2. F.Russoli, in AA.VV., Crippa, edizioni Cortina, cit.
3. L.Cavallo, Crippa, catalogo Centro Tornabuoni, cit.
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