Questione di Non-Stile - di Luca Beatrice
Per il pittore lo stile è questione primaria. Più che in qualsiasi altra forma d’arte, chi dipinge si trova di fronte a questo innegabile problema: fare del proprio segno una griffe personale e inconfondible. La pittura è ancora legata alla necessità dell’originale, fatto ampiamente superato da altri linguaggi che vedono nel processo e nel meccanismo le loro ragioni fondamentali, e non ritengono l’unicità dell’oggetto e del prodotto altrettanto importanti.
Anche rispetto all’immagine “tecnologica”, al rapporto con la fotografia, il video, i nuovi media, entrati pesantemente a condizionare i modi di dipingere, la pittura intrattiene rapporti almeno duplici: se da un lato tende a mimetizzarsi con quelle figure tecnicamente riproducibili già entrate a far parte del nostro immaginario collettivo, dall’altro cerca un riscatto linguistico ripristinando al proprio interno quei segni e quei gesti che le appartengono fin dallo specifico.
Il primo artista a utilizzare regolarmente la fotografia come base e spunto della propria pittura è stato, almeno in Italia, Mario Schifano. Considerava migliaia di immagini senza una logica particolare, non cercando in esse un simbolo o un significato, ma su ciascuna apponeva l’inconfondibile marchio dello “stile Schifano”. Come un re Mida dei pennelli, attribuiva valore al frame non attraverso l’appropriazione ma garantendo l’esistenza di queste stesse immagini come opere soltanto dopo il suo intervento. Prima sarebbero scivolate nel flusso indistinto della comunicazione, inseguito si evidenziano come qualcosa d’altro e di ben più importante: un’opera di Schifano.
Andrea Facco fa esattamente l’opposto, compiendo una sorta di eresia dal punto di vista del pittore classico: riprodurre immagini fotografiche non selezionate per il loro significato mira ad annullare qualsiasi tipo di stile.
Scommessa difficile: non gli interessa essere riconosciuto per il linguaggio (ciò che desidera la quasi totalità dei pittori) ma per coordinate che hanno a che fare con le intenzioni. Logica che appartiene all’arte concettuale. Si tratta di un meccanismo piuttosto articolato che parte da lontano. Negli anni’70 si parlava di iperrealismo a proposito dei pittori che utilizzavano la fotografia come uno strumento.
“Anziché limitarsi a usare la fotografia come fonte del soggetto - scrive Ralph Rugoff nel catalogo della mostra Dipingere la vita moderna - gli artisti si preoccupavano di indagare come le informazioni e il significato racchiusi in un’immagine fotografica si modificassero quando la reinventavano facendone il soggetto di una tela”. Lo sfondo prediletto era quello del paesaggio metropolitano, riprodotto con la tecnica del “più vero del vero” allo scopo di esaltarne l’artificiosità e rivelarne la fondatezza del processo concettuale.
Gli anni ’90 sono stati popolati da una nutrita schiera di artisti-pittori che hanno scelto il linguaggio fotorealista o, comunque, si sono posti il problema del mimetismo tra pittura e fotografia. Se si escludono le formulazioni banalmente commerciali, tra cui l’insistita “riscoperta” dei generi minori o delle pratiche basse, questo genere figurativo sorge consapevolmente dopo la crisi della pittura stessa e la sua estromissione forzata dal giro delle avanguardie.
Tale sistema Facco lo conosce bene, e sa anche che questo tipo di arte corre pericolosamente sul filo: a seconda di dove la metti acquista o meno un valore. Mentre qualsiasi tipo di installazione, video, oggetto, materiale anomalo è accettato dal contesto a prescindere dalla forma e dal significato, la pittura figurativa si pone come il ready made del XXI secolo: se inserita all’interno di un museo funziona come opera d’arte contemporanea, per scendere di livello in maniera direttamente proporzionale all’importanza della cosiddetta “location”, indipendentemente dal valore oggettivo di ciò che viene rappresentato.
Diventa allora indispensabile inserire un discrimine. La pittura oggi ha bisogno di due elementi - il tempo e lo spazio - per non scivolare nell’eccesso di narratività. Oltre all’autoimposizione, al ferreo controllo antistilistico, al rifiuto del soggettivo, Facco considera questi due elementi concettuali fondanti della propria ricerca. Se lo spazio è un’immagine, il tempo è un’idea, e senza un esplicito rimando spaziale in grado di contenere il tempo in maniera figurata, quest’ultimo risulta pressoché irrappresentabile.
Il tempo concettualizza l’opera d’arte perché le offre l’inafferrabile restando sospeso ai margini dell’incertezza.
Ciò accade soprattutto per la pittura (in parte per la fotografia), che tra tutti i linguaggi si manifesta come il più ancorato al limite della rappresentazione bidimensionale:è diretta e non ellittica, nel senso che l’immagine si pone nella sua subitanea evidenza senza un prima né un dopo; è sincronica e non diacronica, perché teoricamente inadatta a presentare simultaneamente più accadimenti sullo stesso piano e corrisponde perciò alla formula dell’hic et nunc; e infine pone all’osservatore un problema di immediatezza percettiva, mentre l’esperienza cinetica presuppone l’attraversamento, quindi una durata, un protrarsi.
Andrea Facco utilizza l’escamotage temporale in almeno due varianti. Quella del cosiddetto polittico, in cui offre una moltiplicazione di punti di vista considerando la medesima partenza, attraverso la simulazione di una sorta di “sala di controllo” per cui la pittura replica la porzione di realtà impressa in un monitor. L’altra, non priva di ironia, consiste nella produzione di un francobollo artigianale - un quadro in miniatura - che sostituisce al valore postale e spedisce a un amico (o a se stesso) quando si trova da un’altra parte del mondo. E’ come se l’immagine si fosse ripresa ciò che le era stato tolto: cita i Date Paintings di On Kawara, le lettere e le cartoline di Alighiero Boetti, la Mail Art in generale.
L’altro elemento, particolarmente presente in questa mostra, riguarda lo spazio. Preparata in seguito al soggiorno di alcuni mesi a Pechino, Facco non mette in luce gli elementi narrativi legati al viaggio in terra straniera, non si sofferma più di tanto sulla Cina del miracolo economico, sulla contraddizione tra neo-capitalismo e vetero-comunismo, sul fascino del lontano oriente, sul crescere indiscriminato delle megalopoli. Non fa della pittura sociologia. Più semplicemente, lo spazio gli serve per tirare degli assi cartesiani, e muoversi all’interno di precise coordinate che attribuiscano prima ordine che senso. Evita sapientemente la trappola dell’olografia prediligendo luoghi anonimi, cose che potrebbero accadere dovunque. Come nell’iperrealismo, la pittura torna a essere indagine assecondando quella rinuncia alla soggettività dello stile che la rende ancor più contemporanea.
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