di Danilo Eccher
Nel complesso universo dell’Orgien Mysterien Theatre, la centralità liturgica è assegnata all’azione performativa, al gesto ripetuto e ossessivo di un rituale dionisiaco dove confluiscono la sedimentazione sacrale del mistero cattolico e le frenesie sabbatiche di un esoterismo medievale, dove la rinascita simbolica del processo sacrificale assume le tonalità della perversione baccanale, dove la dimensione di una soffusa e magica spiritualità sfuma nella torbida e lasciva corrosione carnale.
L’azione liturgica che Nitsch affida all’intero processo dell’OMT è la sintesi suprema di una creatività totale che confonde i linguaggi, ne sovrappone i toni, amalgama tempi e recitazioni. L’intreccio filosofico e religioso da cui scaturisce il percorso artistico di Nitsch non rappresenta solo l’enigma di un ingorgo esistenziale che tutti noi cerchiamo di affogare nella liquidità razionale, ma anche l’esigenza di una molteplicità di parametri espressivi che, solo attraverso il loro intreccio e la loro comunione, sanno raggiungere verità altrimenti inafferrabili.
Musica, danza, pittura, recita, canto sono gli strumenti che lo sciamano agita durante il suo caotico viaggio attraverso le tenebre della verità, sono i mezzi con cui si muove nel corpo teatrale di un pubblico che non può essere solo spettatore, di una verità che non può essere solo rivelata, ma anche vissuta e condivisa. Ecco allora affiorare, nella gelatinosa superficie visionaria, di volta in volta, il rituale della Crocefissione, quello del sacrificio di Abramo, i balli tarantolati delle magie meridionali, l’estasi ascetica delle danze dei dervisci, l’abbandono alle frenesie dei piaceri corporali della classicità ellenistica, ma anche nelle feste funerarie tardo medievali nel Nord.
E’ un oscuro compendio di antropologia culturale europea quello che si addensa nell’arte di Hermann Nitsch, un amalgama grumoso, pastoso, un bitume concettuale che raccoglie e affastella diverse suggestioni, distinti richiami, pensieri lontani per un’unica mappa intellettuale alla ricerca dei segreti della vita. La filosofia di Nitsch, che l’azione espressa nell’OMT testimonia, rappresenta una grande danza nella storia del Pensiero occidentale, un sublime attraversamento dei più importanti snodi di fede che l’intelletto ha prodotto, un azzardo speculativo lungo gli itinerari della ragione.
E’ forse questo approccio disarticolato al pensiero che richiede quel capovolgimento schematico, che suggerisce la necessità di un protocollo definito, che, formalmente, costituisce l’ossatura di quella teatralità liturgica in cui si coagula l’essenza dell’arte di Hermann Nitsch. L’impianto liturgico è dunque, oltre ad un esito compositivo straordinariamente efficace e definito, anche uno strumento formale capace di riordinare e impaginare la frastagliata complessità del pensiero dell’artista. Ma, come in ogni liturgia, vi è un aspetto pubblico, quello dell’azione sacrificale e orgiastica, e un aspetto propedeutico, più discreto, quasi riservato, che l’artista studia ed analizza in un tempo dilatato, affrontando ogni dettaglio, trascrivendo ogni movimento, soffermandosi su ogni nota musicale, definendo minuziosamente tempi e ritmi. E’ il lento lavoro preparatorio dell’azione, la scrittura dell’evento, è il segreto cerimoniale che si compie dietro l’altare della OMT, un cerimoniale fatto di ossessivi disegni, insistite partiture musicali, dettami scenografici, tempi teatrali, ruoli e campi recitativi.
Tutto deve muoversi lungo le tracce definite dall’artista, la casualità è ordinata e composta, il gesto ritrova la sua cornice e l’improvvisazione i suoi confini. In queste dinamiche sotterranee, in questo studio preparatorio, un ruolo determinante è assegnato al processo di vestizione, non il trucco scenografico dell’attore, ma, piuttosto, un rituale simile, per eleganza e drammaticità alla vestizione del torero, oppure, per sacralità e mistero, all’officiante delle chiese cattoliche o ortodosse, o ancora alla tensione nel momento della fasciatura del pugile. Anche l’artista indossa la tunica rituale, come il bastone dello sciamano, si lascia avvolgere dal suo candore, s’inebria del suo profumo, ben sapendo che candore e profumo svaniranno nel primo istante dell’Azione.
Eppure, il valore simbolico della tunica trascende l’oggetto, ne travolge il significato strumentale, ne dimentica la memoria storica, ne abbandona l’immagine spettacolare. Non è più quindi la semplice veste che s’indossa per proteggersi da un gesto che si sa incontinente, non è più nemmeno il tradizionale camice che l’artista indossa nell’atelier per non inzupparsi di colore, non è nemmeno l’abito di scena che l’attore indossa per calarsi nella parte e iniziare la recitazione. Le tuniche di Nitsch sono opere intrise di gesti, calate nelle azioni, modellate dal corpo dell’artista e dai suoi movimenti; reliquie misteriose di un corpo che si è dissolto nel sacrificio dell’arte, Sindone profane di una presenza che ha compiuto il suo percorso sacrale. Non è dunque un caso o un semplice aspetto formale se spesso le tuniche vengono ‘crocefisse’ sulla tela, se la loro testimonianza scardina il superficiale impianto compositivo, se la loro presenza reliquiale impone una lettura più cauta e severa dell’opera.
Tuniche che pur intrise di vari pigmenti o grassi o sangue non abbandonano mai la loro semplice povertà, non tradiscono la loro francescana umiltà; vesti nere, rosse, viola, verdi che accolgono con gioia i colori, che trasudano memorie, che rappresentano il volto di un’opera ormai compiuta, dissolta, svanita, ma il cui pulsare emozionale, il cui peso sacrificale permane nelle sue orme, nelle sue pieghe, nella sua sagoma liturgica.
Se la camicia rappresenta il corpo dell’arte, il disegno ne è il segreto visionario, un segno ossessivo, insistito, caparbiamente involuto, contorto, tormentato, apparentemente incerto, sicuramente complesso; è un tratto sofferto, attratto dalle carni del racconto, quasi indifferente al tema dell’immagine, ma stupefacentemente concentrato sulle fibre della sua struttura, sul sistema sanguigno della figura. Come la vestizione della tunica precede la magia dell’Azione, così il disegno sembra quasi scostarsi dal gesto, allontanare l’istintività e la casualità, ripiegare in una riflessività più ombrosa e contenuta. Il disegno di Nitsch è il frutto di una meditazione ascetica, estasi e sospensione di un agire maniacalmente assente, il racconto si compie altrove, quasi come se esistese un piano narrativo sovrapposto e indipendente da una scrittura completamente assorbita dalla contemplazione del proprio corpo.
La linea di grafite o di pastello si snoda e si riavvolge in volute costanti, come una sorta di intestino segnico dal quale affiorano brandelli di immagine, trame di racconti appena accennati. E’ l’affermazione di iconografia morbosa, soffocantemente invasiva che seziona e scompone ogni figura, che pare moltiplicarsi all’infinito, si espande, si genera, esplode in una vegetazione di segni inarrestabile, una foresta di linee che s’intrecciano e si sovrappongono, si cancellano e si rafforzano. Allora, la sacralità tematica di opere come “Ultima Cena” oppure “Gerusalemme” o ancora “Crocefissione” svapora nel caotico proliferare di linee dalle quali scaturisce l’energia del disegno, la tensione formale di un linguaggio che autisticamente si perde nella propria grammatica. Un disegno che ricorda l’ossessione dei lavori di Marisa Merz, che respira le atmosfere delle incisioni di Piranesi, che accarezza le forme architettoniche di Gaudì o la durezza del tratto di Graham Sutherland.
Il segno di Hermann Nitsch conserva una strana pulsione, una sorta di silenzio compositivo che insegue la linea, un’attesa, un’assenza, è la percezione di un disegno che vuole trattenere per sé il senso del racconto, che concede allo sguardo solo l’abbraccio convulso di confuse figure, ma che conserva solo per sé il segreto dell’emozione narrativa. Non serve ricercare l’immagine, inutile indagare sulla composizione, la vera essenza di questo disegno è l’abbandono al movimento della linea, cedere al ritmo sinuoso di un tratto che scivola incessante sulla carta o sulla tela per tessere il proprio mondo visionario, la propria realtà immaginifica, l’unica verità di queste incantevoli tracce.
Anche la musica, che certamente rappresenta una parte centrale in tutta l’opera di Hermann Nitsch, cela alcuni aspetti più discreti e intimi della sua ricerca, dietro il suo altare compare la sua scrittura o meglio il suo disegno. Una musica che emerge dalla fitta foresta di segni, appunti, note che abitano lo spazio di un pentagramma ormai esploso, frantumato, dissolto. Gli spartiti musicali di Nitsch sono opere a sé stanti, hanno una propria anima e una propria emozione che trascende l’esecuzione sonora. Come la linea grafica, in qualche modo, vagava oltre l’impianto narrativo, così la scrittura musicale sembra quasi reclamare un protagonismo autonomo, sembra esibire una certa indifferenza e lontananza dall’esecuzione. Straordinariamente minuziosa, definita, precisa, controllata, la scrittura musicale di Nitsch non si limita a semplice strumento tecnico-formale, non è un manuale rigidamente applicabile, questo preziosa forma di disegno ha una propria poesia, un sentimento particolare, un’eleganza formale che deve essere contemplata ancor prima che suonata. Ecco allora che questi fogli ricchi di segni e annotazioni, macchie e gesti, propongono una qualità artistica rara e sofisticata, sono come un sottile soffio, un leggero sussurro, un pensiero sospeso da cui scaturisce, imponente e fragorosa, la forza mistica dell’Azione, il gesto purificatorio e salvifico del sacrificio, il colore spaventoso e vitale del sangue, la carnalità contorta delle viscere. L’altare è allora il palcoscenico di una recita che ha come soggetto unico la vita.
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