Reperti di un viaggio mentale
Il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri ospita Steve Sabella. Archaeology of the Future, prima personale dell’artista di origine palestinese in un museo italiano.
La ricerca di Sabella s’incentra sul principio che lega l’immagine all’immaginazione, vera sfida della fotografia ai giorni nostri.
La rassegna, supportata da Boxart (Verona) e in collaborazione con Berloni (Londra), è resa possibile anche grazie all’ausilio critico della storica d’arte islamica Karin Adrian von Roques, che arricchisce il catalogo con un testo generoso e profondo.
La mostra si colloca, inoltre, tra gli eventi di ArtVerona - nella sezione PhotoArtVerona - facendo coincidere l’inaugurazione ufficiale, sabato 11 ottobre, con il weekend della manifestazione, al suo decennale, e con la X edizione della Giornata del Contemporaneo indetta da AMACI, Associazione dei Musei Italiani d’Arte Contemporanea.
Perché dunque un’archeologia del futuro? Il titolo della mostra è un evidente paradosso, ma soprattutto è un Manifesto programmatico: solo scavando in ciò che Bergson definiva «flusso vitale», ovvero nell’esiguo passato di un’esistenza umana, si possono rinvenire con maggiore probabilità le basi di un singolo domani, per molti aspetti condiviso.
E se il piacere di questo scavo, della recherche - annotava Proust – consiste, non nel cercare nuovi paesaggi, ma nel viaggiare con nuovi occhi, Sabella è un viaggiatore vero. Dai suoi occhi s’intravvede infatti l’esilio da Gerusalemme – dove è nato nel 1975 – verso l’Europa; ma lo sguardo di Steve, al pari della quarta dimensione cubista, porta alla luce anche una visione interiore dello spazio e del succedersi degli accadimenti.
Si può affermare che molte opere esposte a Verona “derivino” da Gerusalemme, mimando, alcune, frammenti archeologici millenari. Vi sono le pietre della Città Vecchia e i frammenti di pittura staccati dalle case occupate da Israele nella guerra del 1947/1948, da cui fuggirono più di 700.000 palestinesi. Un conflitto aspro, oggi tutt’altro che risolto. Ogni traccia lasciata dall’artista è dunque una scheggia di Storia conficcata nell’attualità, un istante in cui sono compendiate le premesse e l’avvenire.
Conoscere i fatti e la biografia di Sabella - trasferitosi a Londra nel 2007 e a dal 2010 Berlino - non basta quindi a ripercorrere le tappe di un viaggio chiaramente non cronologico né geografico, bensì esistenziale. Per il pubblico degli Scavi Scaligeri, l’artista riscrive pertanto una mappatura più autentica e totale della sua esperienza, in sei stazioni più una “zona franca”, rimpastando il suo vissuto e la rielaborazione mentale di esso, nonché di un luogo simbolo per l’umanità: la Palestina.
Citando i titoli di due dei sette cicli esposti, si parte dall’esilio per giungere all’indipendenza, attraverso un pari numero di soste, effettuate da Sabella uomo, e dall’artista, tra 2004 e 2014. A queste sei tappe, come preannunciato, si somma un’area di passaggio denominata In Transition. I luoghi ritratti non sono reali, ma radicati nella memoria, su cui si innesta l'immaginazione, senza più alcuna aderenza con l’oggettività o con il passato. Allo stesso modo, dicevamo, lo sviluppo temporale degli spostamenti da un luogo A a B viene meno, rendendo possibile far convivere, all’inizio del percorso espositivo, i due estremi del viaggio.
Cinque opere della serie In Exile del 2008 si trovano infatti esposte nel primo corridoio del museo, a fianco di quella che può essere vista come la tappa finale dell’itinerario di Sabella, ovvero Independence (2013), ciclo fotografico risalente soltanto a un anno fa.
Nel primo caso si tratta di paesaggi della reminiscenza, collage fotografici nati dall’assemblaggio di porzioni di spazio: pezzi di abitazioni, finestre, cornicioni e terrazze. La ripetizione di una o più immagini, da angolature diverse, ricompone i ricordi scaturiti dalla frequentazione di quei luoghi e ricrea un paese mentale, diverso ma non meno caleidoscopico di quello “reale”.
I collage di Sabella possono apparire simili a immagini cubiste, scomposte e ricomposte, dalla tridimensionalità del “reale” alla bidimensionalità della fotografia. Ecco, dunque, tornare Bergson, non a caso teorico del Cubismo, per il quale il reale applicato al tempo non coincide con la misurazione scientifica di esso, ma con un flusso soggettivo in cui cade la netta distinzione tra passato e presente. Che Sabella sia consapevole di tale matrice importa relativamente. Di certo, nelle sue opere, epoche e territori distinti si sovrappongono, come nelle angolosità delle Demoiselles d’Avignon si ritrovano gli idoli ancestrali africani e le ricerche coeve a Picasso sulla quarta dimensione.
Nella serie Indipendence si può individuare, fin dal titolo, l’espressione di una liberazione dal precedente stato di esilio. La riconquista di questa libertà è rappresentata da una grande installazione, composta da una decina di tele di oltre due metri sospese nel vuoto. Su questi teleri contemporanei, all’interno del salone, fluttuano teatralmente alcune immagini acquose, in cui si riconosce tuttavia la figura umana. Le silhouette, agganciate al soffitto al pari di acrobati al trapezio, trasmettono un senso di pacificazione, di riconquistata armonia, più che auspicabile - verrebbe da aggiungere - per l'intera Palestina, da decenni in lotta per lo stesso obiettivo.
La linea di confine tra le due condizioni, passata e presente – non sembra tuttavia sfuggire a Sabella la ciclicità dell'esistenza - è rappresentata dalla serie Till the End (2004), un gruppo di pietre raccolte a Gerusalemme e collocate nelle teche degli Scavi tra il corridoio d'ingresso e la prima sala, quasi fossero reperti archeologici. Su ciascuna roccia è impressa un’immagine, un frammento di memoria, che sconfina dalla realtà “accaduta” all’iperrealtà, vero territorio di ricerca dell’artista.
A questo punto della narrazione, nell’epopea di Steve Sabella dal Medio Oriente all'Europa non è illegittimo, a nostro avviso, leggere il tema dello sradicamento e la speculare idea di appartenenza e integrazione sperimentati dai costanti flussi migratori verso le sponde del Mediterraneo, che incrociano l’Italia e il Continente Europeo. L’allontanamento inevitabile dal proprio Paese e le conseguenze illustrate da Sabella nel suo percorso individuale compiono qui a pieno il valore metaforico dell'arte: giungere a saldare l'esperienza dell'artista a un più ampio esodo collettivo, quello, ad esempio, collaterale al fenomeno delle recenti Primavere Arabe e agli sviluppi successivi nelle province nordafricane e mediorientali. Quelle pietre rassomigliano a immediati “souvenir” di chi lascia frettolosamente la patria, semplici rocce che, tuttavia, una volta istoriate di memoria condivisa, divengono oggetti preziosi da custodire.
Le serie fotografiche esposte nelle sale successive sembrano trasmettere un maggiore senso di speranza circa i rivolgimenti epocali degli anni Duemila. In primis compare il trittico In Transition (2010), ovvero tre fotogrammi instabili, seguito da sei grandi opere intitolate Metamorphosis (2012) che sfilano lungo il corridoio antistante le cantine dei Palazzi Scaligeri. In queste ultime, la realtà dell’oggetto diviene ancor più simbolica che nei collage di In Exile: il filo spinato, emblema della costrizione fisica, sembra qui ricucire le ferite causate. Allo stesso modo, il muro dei territori palestinesi occupati diventa permeabile come il suo vibrante riflesso nell’acqua. Superando i confini dell’immagine fotografica, sia verso l’antica pratica del mosaico che in direzione della frontiera multimediale, Sabella ritrova dunque il proprio posto nel mondo, quello attuale, privo di un centro. Scrive l’artista: «Il duro lavoro è stato trovare il modo per consentire una nuova trasformazione, pur ammettendo che il mio DNA rimarrà sempre lo stesso». E’ stato attraverso l'indagine del suo stato di esilio, tramite un processo di auto-interrogazione e introspezione, che Sabella è stato in grado - dichiara egli stesso - di scavare più in profondità il rapporto tra le immagini e la realtà che creano.
Il tempo collassa, si è detto, e così i luoghi. «Everything is a mental state, the place itself doesn’t exist», afferma Sabella. Gerusalemme, che l’artista esule definisce «la capitale della sua immaginazione», è suddivisa in realtà, non in cubi, ma nelle griglie dei quattro quartieri: musulmano, ebreo, cristiano, armeno, mentre il muro che divide i territori occupati è una linea geometrica fisica. Il muro dunque persiste nella capitale, pur divenendo irreale e inefficace nel suo tentativo di confinare l’inconfinabile, come l’orologio di Bergson che non riesce a restituire la “realtà” del tempo.
In questo compito solo l’immaginazione ha qualche chance: la forza creatrice può ricongiungere, ad esempio, le storie delle famiglie palestinesi con le proprie case abbandonate, in cui, pur in assenza dei protagonisti, le vicende restano “presenti” nei decenni successivi.
E come i mosaici di scatti innescano un dialogo con gli ambienti delle domus romane, il ciclo 38 Days of Re-Collection richiama formalmente - dopo il precedente di Till the End - ritrovamenti coerenti con il sito archeologico degli Scavi Scaligeri. Sotto teca su alte basi bianche, l’artista colloca frammenti di pittura staccati dalla casa natia e da altre limitrofe.
Questo progetto ha coinvolto Sabella per diversi anni, fino al recente risultato in mostra a Verona. Dopo aver affittato una casa occupata dagli Israeliani, l’artista vi è rimasto 38 giorni - da cui il titolo della serie - fotografando quegli interni domestici esattamente come gli apparivano. Una volta rientrato a Londra, le immagini digitali a colori sono state convertite in negativo fotografico bianco e nero, ovvero nelle gradazioni della memoria. Successivamente l’artista ha applicato un’emulsione fotografica ai frammenti di pittura colorati, restituendo vivacità alle immagini originali. Il viaggio di Steve, si potrebbe dire, non è stato altro che una spedizione archeologica con ritrovamenti e restauri. L’unica differenza consiste nel valore essenziale di quegli oggetti trovati: non è il recupero di un tempo perduto, ma la scoperta di un pensiero originale, tesaurizzato per i giorni a venire.
Lo “scavo” in cui Sabella ha riportato alla luce la sua storia immaginata della Città Eterna è narrato dall’intenso documentario In The Darkroom with Steve Sabella, diretto e prodotto da Nadia Johanne Kabalan, anch’esso visibile in mostra.
A concludere il cortocircuito site-specific di spazio e tempo è Exit, ultima serie del percorso, datata però 2006. Dalla via d’uscita si procede con tutta probabilità verso un nuovo inizio, indicato da mani anziane e ricurve, proiettate in dissolvenza l’una nell’altra, che raccontano ancora una volta il cammino senza sosta dell’esistenza, dalla corruzione del corpo e degli edifici, fino al rafforzamento della percezione umana.
Le mani contorte dei vecchi, sono asimmetrie su fondo nero, senza tratti etnici né di genere evidenti, difficile anche rintracciarne l’epoca, se non quella, comune a tutti, della fragilità senile. La stessa fragilità dei piccoli “affreschi” contemporanei di Steve Sabella, creati ex novo con velature di emulsioni.
Mentre l’esilio mentale dà l’illusione di restrizioni laddove non ci sono, ovvero nella Berlino del dopo-muro, Steve esorcizza un po’ alla volta i propri ostacoli alla libertà. Grazie a continui, irreggimentati sconfinamenti - come si è cercato di evidenziare - è un artista che punta all’Universale, consapevole che l’indeterminatezza della condizione umana sfugge alle geometrie, compresa la sua. Sabella conserva così, nelle sue opere, quell’ambiguità che rende l’arte necessariamente sconfinata.
Beatrice Benedetti, Settembre 2014
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